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25/04/2024

Nikita (1990) di Luc Besson - Minirece

25 aprile/2. Fu guerra civile, non solo di Liberazione: e lo rivendicate pure, fascisti?

di Massimo Zucchetti

Seconda metà di Aprile 1945, 79 anni fa. L’insurrezione scoppia in Italia dopo venti mesi di occupazione nazista e cinque anni di guerra: da allora, l’Italia antifascista festeggia con il 25 aprile la liberazione dal nazifascismo e la fine della guerra.

Una guerra che aveva visto il territorio del nostro Paese essere campo di battaglia per lungo periodo lasciando l’Italia quasi completamente distrutta, e causando circa 472.000 morti, fra militari (319.000) e civili (153.000), cioè circa il 1,07% della popolazione: un italiano su cento, ucciso dalla guerra.

Sono nato all’inizio degli anni ’60, e fin da bambino mi son stati familiari i termini “classici”: partigiani, Resistenza, antifascismo, 25 aprile Festa della Liberazione. Sembravano date certe, definizioni chiare, termini condivisi da tutti. Dagli anni '90, abbiamo assistito invece a vari tentativi di cambio di nomenclatura.

Ha iniziato il governo Berlusconi, a ventilare un cambio di nome del 25 aprile in “Festa della Libertà”: un tentativo talmente scoperto nelle intenzioni e goffo nelle motivazioni, da essere poi stato sepolto e dimenticato dalla sua stessa pochezza e contingenza.

Attualmente, trovando comunque insopportabile quel “Liberazione” (che sottintende, dal nazifascismo), gli eredi del neofascismo – tra l’altro al governo del paese – si limitano ad affermare che il 25 aprile sarebbe una “Ricorrenza divisiva”.

Ma qui possiamo tranquillamente dare loro ragione una prima volta: il 25 aprile divide chi lo festeggia (e si riconosce nell’antifascismo, uno dei valori fondanti della Repubblica Italiana) da chi non lo festeggia (ed ha una visione qualunquista o immemore della storia politica italiana, non si riconosce nei suoi ideali, oppure ammicca con simpatia a una certa destra antidemocratica. Oppure, direttamente, bazzica il neofascismo).

Personalmente, riteniamo che, se si tratta di dividere chi è antifascista da chi non lo è, ben venga la definizione del 25 aprile come ricorrenza divisiva: riteniamo giusto ed appropriato essere “divisi”, nel senso di distinti e differenti, dagli eredi e continuatori ideologici del fascismo, ora aggiornato in destra nazionalista, populista, razzista e portatrice di pseudo-valori – utilizzando un aggettivo un po’ moderno – tossici.

Un altro sintomo dell’allergia dei revisionisti al termine “Liberazione” ed al concetto che essa sottende, si è manifestato nel cambio di denominazione da “Guerra di Liberazione” a “guerra civile”.

È nato come un’altra goffa e scoperta operazione revisionista: fu guerra civile perché sia da una parte che dall’altra combattevano italiani – realtà incontestabile – “e quindi” vi erano due parti che in qualche modo si equivalevano – forzatura inaccettabile perché antistorica e falsa, sia nel contesto italiano, che nel contesto ideologico dell’intera guerra mondiale, vista come scontro fra democrazia e libertà da un lato, dittatura e razzismo dall’altro.

L’operazione ha visto però prender piede ed essere accettata anche da molti antifascisti. Noi non siamo contrari a questa ridefinizione, che si basa su una realtà di fatto.

L’Italia, in effetti, fu largamente fascista durante il ventennio, e un numero non trascurabile di italiani restarono fascisti anche durante la guerra di liberazione.

Ed è quindi vero: la Resistenza combatté anche contro gli italiani fascisti repubblichini, che in armi affiancarono l’esercito tedesco invasore, con compiti da cane da guardia nella repressione.

Un prezzo altissimo, pagò l’Italia, in quegli anni: se andiamo alla miriade di singoli episodi di crudeltà, vigliaccheria, sopruso, ruberia, assassinio, delinquenza, repressione, tradimento, i repubblichini di Salò furono, nel modo meschino loro tipico, anche peggio dei nazisti occupanti.

Se guerra civile fu, venne resa tale dalla presenza e dalla barbarie delle Brigate Nere, della X MAS, delle varie bande di delinquenti fascisti con l’uniforme della polizia.

Molti vecchi arnesi squadristi volentieri trasmisero ai neofascisti quella certa mentalità da assassini a tradimento che poi ritroveremo nel terrorismo neofascista del dopoguerra.

Senza di loro, senza i repubblichini, sarebbe stata più propriamente una guerra di liberazione: in questo senso non possiamo che essere d’accordo con i revisionisti, sebbene non si riesca a comprendere quale merito possano ascriversi, i fascisti di Salò, nell’aver trasformato di fatto in guerra civile la guerra di Liberazione dell’Italia.

Oltretutto considerando che, dal punto di vista militare, il loro contributo al fronte fu praticamente nullo. O quale sollievo ne possano trarre ora i loro eredi politici. Va riconosciuto però un fatto: la manovra revisionista ha messo in risalto una realtà triste e dura da accettare, ma verissima: l’Italia, nel 1943-1945, era ancora in parte fascista. E tale rimase, in tracce, persino dopo la Liberazione.

A fine guerra, questo tumore non venne completamente estirpato nemmeno con il 25 aprile e neppure con l’epurazione e la Resa dei conti: esso ha avuto modo di sopravvivere e di generare, nel dopoguerra e fino ai giorni nostri, molte e diverse metastasi. Per sopprimere le quali, riflettendoci, non c’è altra scelta – anche oggi come allora – della guerra partigiana.

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Economia di guerra e keynesismo militare in salsa UE

L’ultimo rapporto del Sipri (Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ha certificato l’ennesimo aumento delle spese militari a livello mondiale. I 2.440 miliardi raggiunti infrangono ogni record, con gli USA a rappresentare, ovviamente, la fetta più grande di questa somma.

In realtà, il riarmo è una dinamica che procede da anni, anche se in maniera strisciante e meno visibile, ma sicuramente un’accelerazione si è avuta con l’operazione russa in Ucraina, dal 2022. La UE è stata sin da subito in prima fila nello sdoganare l’importanza della transizione a un’economia di guerra.

In uno scenario di maggiore tensione internazionale, in cui Washington non è più in grado di fare il bello e il cattivo tempo, le classi dirigenti europee hanno sentito la necessità di rafforzare le proprie forze armate. Ma non è solo una questione di proiezione di potenza.

Con la crisi dell’unipolarismo euroatlantico e la frammentazione sempre più netta del mercato mondiale, si sono aperte enormi crepe nel modello europeo export-oriented che ha il suo fulcro nella Germania. Dazi, sanzioni, distruzione del North Stream e apparente contrasto tra profitti e strategie politiche ne hanno sottolineato tutte le debolezze.

La classe dirigente europea non ha la flessibilità né la legittimità per poter dire che la compressione del mercato interno a favore delle esportazioni e la competitività ottenuta con la riduzione delle tutele dei lavoratori si rivelano oggi scelte fallimentari. Devono offrire un’altra lettura senza mettersi in discussione.

Dal febbraio 2022 il comparto militare-industriale è stato subito identificato come un’opportunità per rilanciare l’economia UE in crisi. I vertici militari ripresi su varie testate giornalistiche lo hanno cominciato a dire in maniera esplicita, coinvolgendo su questa strada anche la ricerca pubblica e pesando sempre più sulle scelte politiche.

Sul nostro giornale abbiamo già mostrato come la legittimazione delle filiere militari derivi, in primo luogo, da interessi materiali e dalle migliaia di posti di lavoro che, ad ogni modo, una produzione di massa garantisce. Non numeri tali da compensare la desertificazione industriale di paesi come il nostro, ma a qualcosa dovranno pur aggrapparsi.

Del resto, il keynesismo militare, insieme al ruolo del dollaro nel sistema finanziario internazionale, è ciò su cui gli Stati Uniti hanno fondato il loro modello negli ultimi decenni. Per i futuri “Stati Uniti d’Europa” Berlino e Parigi vogliono seguire lo stesso percorso anche sul lato bellico-produttivo.

L’11 aprile Macron ha inaugurato i lavori di una fabbrica di polvere da sparo e munizioni a Bergerac, dentro uno stabilimento di Eurenco, società al 100% di proprietà dello stato francese. L’evento è stato l’occasione per rilanciare le prospettive dell’industria militare francese.

Macron ha dichiarato: “ci siamo avviati verso un cambiamento geopolitico duraturo […] in cui l’industria della difesa svolgerà un ruolo crescente”. A fargli da eco in maniera ancora più esplicita è stata una nota dell’Eliseo, per cui la Francia deve “accelerare il proprio passaggio all’economia di guerra e ritrovare la propria sovranità nei settori strategici”.

Politici e dirigenti di Eurenco hanno sottolineato più volte i posti di lavoro e gli investimenti che il comparto militare garantirà nei prossimi anni. Nel 2023 gli ordini di armamenti francesi sono arrivati a 21 miliardi di euro, con le spese militari in aumento continuo da un quinquennio.

Una “ricchezza” (così riporta Le Monde) che viene evocata in continuazione. La presenza di Macron sembra essere la riproposizione francese della visita che il cancelliere tedesco Scholz fece lo scorso febbraio a un nuovo sito della Rheinmetall, in cui chiese una produzione europea “su larga scala”.

All’inaugurazione ha presenziato anche Mette Frederiksen, anch’essa socialdemocratica e a capo del governo danese. Copenhagen si rifornisce spesso dall’azienda tedesca, ha consegnato tutto il suo parco d’artiglieria all’Ucraina, e la Frederiksen ha anche affermato che “la libertà ha un prezzo”, facendo riferimento alla necessità di tagliare lo stato sociale per finanziare il riarmo.

Tornando alla Germania, la punta di diamante dell’industria tedesca, l’automotive, è in difficoltà di fronte alla competizione cinese. Il viaggio appena concluso da Scholz a Pechino lo ha visto barcamenarsi con logiche del passato in un mondo molto diverso da quello che ha fatto le fortune tedesche negli ultimi decenni.

Rheinmetall prevede che quest’anno le vendite supereranno i 10 miliardi di euro, 3 in più del 2023. Nello stesso anno, l’azienda ha ricevuto 108 mila candidature, e quest’anno sono già circa 40 mila.

Anche il produttore di ingranaggi Renk ha visto aumentare le richieste di lavoro, con profili professionali sempre più alti e formati. Dalle risorse umane dell’impresa fanno sapere che si aspettano domande da molti lavoratori provenienti dagli esuberi del settore automobilistico.

Il riarmo della Germania si presenta sempre più come una strada alternativa per il modello tedesco. Thomas Müller, ex amministratore delegato di Hensoldt, attiva nel mercato dei sensori per le difese aree, ha dichiarato: “approfittiamo dei problemi di altri settori per costruire la nostra forza lavoro”.

Insomma, politici e produttori di armi sono in sintonia più che mai nel far virare definitivamente anche la UE verso un keynesismo militare, che serva a riarmarsi e svolgere un ruolo autonomo nello scenario mondiale. Ma che garantisca anche nuove opportunità di crescita di fronte alla stagnante situazione economia.

Chi ha scelto questa strada in passato si è trovato in un circolo vizioso in cui, per alimentare la propria economia, ha alimentato anche l’impegno bellico su sempre più fronti, in sempre più conflitti. È un piano inclinato su cui l’imperialismo si è avviato, senza conoscere alternative.

Essa può venire solo da un processo di trasformazione sociale, in cui non sia più il profitto e il privato ad avere la proprietà e la gestione dei mezzi di produzione, e a decidere l’indirizzo degli investimenti. Questa transizione è in un certo senso favorita dalla guerra del capitale.

Come è già successo con le tragedie delle guerre mondiali, il passaggio a un’economia di guerra vede crescere un forte impianto di interventi e strutture pubblici di coordinamento. Anche se la UE ha ancora un modello di governance pieno di farraginosità, l’approvazione della prima strategia industriale sulla Difesa e l’impegno sulla Military Mobility sono esempi di importanti passi in questa direzione

Senza una pianificazione pubblica, sarebbe impossibile pensare di saper indirizzare l’intero sforzo sociale verso un obiettivo tanto deprecabile quanto impegnativo e totalizzante come la guerra. E allora la pianificazione, già largamente usata nelle grandi multinazionali, non solo è possibile, ma non si capisce perché dovrebbe essere utilizzata a questo scopo invece che ad altri più pacifici.

Su questo terreno le forze politiche di alternativa possono più facilmente far passare il messaggio di un mondo diverso, e mostrare che vi sono gli strumenti e le risorse per pianificare il cammino dell’intera collettività su questa diversa strada, sulla base degli interessi delle classi subalterne.

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Dilaga la protesta antisionista nelle università Usa

È decisamente questa l’America che ci piace (oltre al cinema, il blues e il jazz).

Sta dilagando in modo prorompente la protesta degli studenti statunitensi contro il genocidio in Palestina ed il criminale sostegno che fornisce l’amministrazione Biden, a Netanyahu e ai suoi suprematisti razzisti (basta ascoltare il discorso di Smotrich e BenGvir, qui in video, per averne una prova clamorosa).

La repressione della polizia, fin qui stolidamente feroce (centinaia di arresti senza che fosse avvenuto neanche il minimo “incidente”), ha avuto – come spesso avviene nella Storia – un effetto decisamente opposto a quello voluto.

Invece di spaventarsi e rinunciare, la folla dei manifestanti e il numero degli atenei interessati cresce di giorno in giorno.

E persino l’agenzia di stampa italiana Agi – di proprietà dell’Eni, ossia pubblica, quella che l’imprenditore fascista nonché senatore Angelucci vorrebbe comprare per consolidare il proprio mini-impero mediatico – è obbligata a denti stretti a registrare l’esplosione.

Nota a margine. Quando qualcuno dell’amministrazione Usa arriva ad ipotizzare l’intervento della Guardia Nazionale (truppe militari, non normale polizia, già criminale di suo), significa che il livello del panico nella “classe politica” è ormai oltre il livello di guardia.

*****

Il leader della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, il repubblicano Mike Johnson, è stato criticato durante una tesa visita alla Columbia University, mentre nei campus statunitensi dilagano le proteste contro la guerra a Gaza.

Ieri, la polizia ha fatto irruzione tra gli studenti che manifestavano in un’università del Texas, arrestando 34 persone, tra cui un fotografo di una testata locale, sullo sfondo dell’aumento di sit-in e accampamenti studenteschi nei college come parte di una crescente ondata di manifestazioni pro-Palestina.

Johnson ha denunciato che i funzionari della Columbia hanno perso il controllo della situazione e ha invitato la rettrice dell’università, Nemat Shafik, a dimettersi.

Mentre i responsabili degli atenei sono impegnati a disinnescare i disordini nei campus da una costa all’altra del Paese, alcuni si sono rapidamente rivolti alle forze dell’ordine, come l’Università del Texas ad Austin.

Qui, centinaia di poliziotti, tra cui alcuni a cavallo e con manganelli, si sono scagliati ieri contro i manifestanti per allontanarli dal prato principale del campus, facendoli a un certo punto cadere a terra.

Gli agenti si sono fatti strada tra la folla per effettuare gli arresti: 34 in totale, secondo i dati del dipartimento di Pubblica Sicurezza dello stato americano.

La polizia se n’è andata dopo ore di sforzi per riportare sotto controllo la folla; circa 300 manifestanti sono poi tornati a sedersi sull’erba e a cantare sotto l’iconica torre dell’orologio dell’ateneo.

Gli studenti che protestano contro la guerra a Gaza chiedono alle università di tagliare i legami finanziari con Israele e di disinvestire dalle aziende che sostengono il conflitto in corso da oltre sei mesi. Alcuni studenti ebrei affermano che le manifestazioni si sono trasformate in un’ondata di antisemitismo.

Anche alla Columbia, ieri, sono intervenute le forze dell’ordine, in un’iniziativa che ha portato i manifestanti a chiedere le dimissioni della rettrice Shafik, la quale ieri ha incontrato il presidente della Camera.

Johnson ha poi tenuto una conferenza stampa nel campus, insieme ad altri deputati repubblicani: ha respinto la versione per cui le proteste rientrano nella libertà di parola e quindi vadano tutelate e ha denunciato che i responsabili della Columbia non sono riusciti a proteggere gli studenti ebrei tra le preoccupazioni sull’antisemitismo all’interno e nei dintorni del campus.

“Questo è pericoloso”, ha detto Johnson. “Rispettiamo la libertà di parola, rispettiamo la diversità di idee, ma c’è un modo per farlo in modo legale e non è quello che è”.

“Il mio messaggio agli studenti all’interno dell’accampamento è di tornare in classe e porre fine a queste sciocchezze”, ha aggiunto. “Non possiamo starti a sentire”, hanno urlato i ragazzi contestando lo speaker della Camera.

Johnson ha anche ipotizzato la possibilità di chiamare le truppe della Guardia Nazionale, cosa che la governatrice democratica di New York Kathy Hochul, ha detto di non avere intenzione di fare. (Agenzia Agi)

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Nazisti ucraini e “brigata ebraica”, un miracolo targato Israele

Israele pone la legittimità della creazione del proprio Stato nel solco dello scontro della Seconda Guerra Mondiale, pertanto non si può formalmente posizionare al di fuori dal sistema di valori che ne scaturì.

Tuttavia le cronache mediorientali portano inequivocabilmente in quella direzione. Se però Israele andasse ostentatamente fuori da quel solco, potrebbe veder messa in discussione la legittimità della propria esistenza.

Nel tentativo di far sembrare d’essere rimasta in quel solco, Israele ha avviato una campagna revisionista sulla Seconda Guerra Mondiale con cui si vuole mostrare come fedele a un sistema di valori che ha completamente tradito.

Uno degli strumenti di questa campagna è la Brigata ebraica (sulla cui storia piena di ombre, che si pone in antitesi con l’esperienza della Resistenza, si può trovare un approfondimento su Contropiano), sotto le cui insegne molti sionisti si presentano negli eventi antifascisti.

Ovviamente ciò è puramente strumentale, a favore di Israele, e fa danno tanto alla causa palestinese quanto alla memoria storica italiana.

A Roma la Brigata ebraica – o meglio quelli che la ricordano – da alcuni anni non partecipa alle celebrazioni ufficiali del 25 aprile a Porta San Paolo. Ora si limita a presentarsi sulla stessa piazza la mattina presto, prima che inizi la manifestazione. Lì svolge una rapida commemorazione alla lapide delle truppe Alleate, per poi andarsene prima che arrivino i manifestanti.

Questa iniziativa potrebbe pure essere legittima, ma nel caso in cui non si intorpidisca la narrazione con ricostruzioni revisioniste. Quella lapide celebra si o schieramento in cui militò la Brigata ebraica, ma fa riferimento ad uno specifico evento, la liberazione di Roma.

In più, sulla lapide sono elencate le battaglie che si sono combattute per arrivare nella capitale il 4 giugno del 1944. All’epoca, la Brigata ebraica ancora non era stata fondata, quindi non ha partecipato a nessuna delle battaglie lì citate.

Ogni tentativo d’intestarsi quelle vittorie, va fermamente respinto, in nome dell’antifascismo, della giustizia e della verità storica. Questo è quello che si farà il 25 aprile a Porta San Paolo alle ore 8 di mattina.

La speranza è che la “Brigata ebraica” a Porta San Paolo abbia il buon gusto di presentarsi senza i banderisti ucraini, i seguaci dei fantocci di Hitler responsabili dell’Olocausto degli ebrei, che già si sono visti in piazza al fianco della comunità ebraica.

Un folle e raccapricciante cortocircuito logico.

Il 25 aprile a Roma ci sarà comunque una presenza ucraina a fianco dei sionisti e sarà alle ore 10 a via Tasso, all’interno di una iniziativa promossa dai Radicali.

La presenza dei nazisti ucraini nelle celebrazioni del 25 aprile non è qualcosa d’inedito, si era vista già in diverse città, tra cui Milano. Lì nella manifestazione che celebra la Resistenza, due anni fa gli ucraini si erano presentati con il simbolo del Battaglione Azov, che richiama quello della Divisione SS “Das Reich”.

Si tratta della Divisione che invase l’Ucraina (cioè l’Unione Sovietica) durante la Seconda Guerra Mondiale, evento che nella perversa prospettiva dei banderisti, fu la loro “liberazione”.

Nel corteo del 25 aprile di Milano la Brigata ebraica negli anni passati aveva un posto d’onore riservatogli da Cenati, l’ex presidente ANPI (recentemente dimessosi in polemica sulla gestione della crisi mediorientale), oggi le cose potrebbero andare diversamente.

Sia i sionisti che gli ucraini hanno dichiarato di non riconoscersi nello striscione di testa che recita “Cessate il fuoco ovunque”. Tuttavia, parteciperanno al corteo e lo faranno in uno spezzone congiunto che sarà aperto da uno striscione che storpia il pensiero di Calamandrei e offende la memoria di tutti i partigiani attraverso lo slogan “Ora e sempre la democrazia si difende”. Infatti, l’Ucraina è tutto fuorché una democrazia.

Alla luce di quanto succede in Palestina, le forze sioniste si pongono in antitesi a quelli che sono i valori della Resistenza, cercano però di rimanervi formalmente ancorati attraverso un uso strumentale e revisionista della Brigata ebraica.

Se si trascurano i valori e si punta tutto sulla tattica, si degenera facilmente. Agli ebrei che saranno al fianco dei banderisti, va ricordato che proprio gli uomini di Bandera sterminavano gli ebrei.

A tutti gli antifascisti va ricordato che gli ucraini seguaci di Bandera combatterono in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e lo fecero naturalmente nelle fila delle SS; hanno persino un loro monumento, nel cimitero germanico della Futa (va ovviamente ricordato che non si tratta di una questione etnica, in quanto ci furono anche ucraini che, scappati dai campi di prigionia, si unirono alla Resistenza italiana, eroi a cui va tutta la nostra riconoscenza).

Inoltre, le SS spesso affidavano proprio ai banderisti la gestione dei lager, in quanto per ferocia non avevano eguali.

Assistiamo oggi ad una convergenza perversa tra sionisti e banderisti, qualcosa che lascia davvero disgustati e perplessi, ma che non va liquidato come semplice revisionismo fine a se stesso. Il fronte atlantista e sionista è in grande difficoltà, è tramortito da i colpi che gli sta assestando la Storia. Questa è solo la reazione scomposta di una bestia ferita.

Soprattutto nel 25 aprile in Italia c’è un ricompattamento delle istanze antifasciste, antisioniste e in generale progressiste. Un momento di grande visibilità in cui va in crisi il già traballante sistema di gestione del consenso da parte del Potere.

Capendo di non poter fronteggiare questa crisi – in quanto le contraddizioni sono tante e tali da renderlo quasi impossibile – il modo più agevole per tentare di reggere l’urto degli eventi è di far “saltare il tavolo” rompendo gli schemi: così si arriva alla convergenza tra sionisti e banderisti.

Tuttavia quegli schemi non sono una convenzione astratta, ma la rappresentazione della nostra storia, della nostra memoria, della nostra società. Chi forza quegli schemi, si mette contro tutto ciò, e va trattato di conseguenza.

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La mossa di Israele: guerra in Medio Oriente o carta bianca a Rafah

L’attacco chirurgico contro le strutture militari iraniane riduce il rischio di guerra con Teheran, ma dà a Israele il via libera per radere al suolo Rafah, l’ultima città rimasta a Gaza.

Il governo di Benjamin Netanyahu ha ceduto alle pressioni degli alleati americani e ha limitato le previste rappresaglie contro l’Iran dopo l’ondata di droni e missili lanciata domenica scorsa. Ora, il prezzo della risposta moderata israeliana, con il bombardamento delle istallazioni militari a Isfahan, sarà pagato dai palestinesi nel sud di Gaza.

Rafah, l’unica città palestinese di Gaza che non è stata distrutta da Israele nella sua crociata contro le milizie di Hamas, attende l’assalto delle forze israeliane schierate nella zona e che hanno già una data per l’attacco, concordata con gli Stati Uniti, in cambio di non scatenare una guerra con Teheran.

Mentre il mondo intero guarda verso l’Iran, Israele gioca le sue carte a Rafah per terminare li la carneficina iniziata con la guerra di Gaza.

Mentre il mondo intero guarda all’Iran, Israele gioca le sue carte a Rafah

Netanyahu e il suo gabinetto di estremisti finiranno il lavoro sporco a Gaza senza gli sguardi indesiderati di un Occidente spaventato dalla possibilità di una guerra totale in Medio Oriente. Ancora una volta, il conflitto israelo-palestinese appare come la causa ultima di una crisi generale nella regione.

Un avvertimento al programma nucleare iraniano, ma dopo Gaza

La scelta della base iraniana attaccata non è stata banale, dal momento che lì si trovano alcune delle infrastrutture più importanti del programma nucleare iraniano, nel mirino degli Stati Uniti e dello stesso Israele per il sospetto che possano avere un uso militare da parte dell’Iran, che lo starebbe nascondendo alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).

Secondo il canale televisivo americano ABC, che cita fonti della Casa Bianca, durante l’attacco di venerdì Israele ha colpito anche il sistema di difesa del sito nucleare di Natanz in Iran. Nello specifico, l’obiettivo potrebbe essere un radar antiaereo integrato nella protezione delle strutture di Natanz.

Il messaggio israeliano è molto chiaro: la prossima volta verrà distrutto il complesso nucleare iraniano

Il fatto che Israele possa facilmente colpire le vicinanze di Natanz e del suo impianto di arricchimento dell’uranio rappresenta una minaccia reale per l’Iran e per i suoi progressi nell’uso dell’energia nucleare con fini militari.

Solo a Isfahan, l’AIEA monitora sette impianti nucleari iraniani. Il messaggio israeliano è molto chiaro: la prossima volta verrà distrutto il complesso nucleare iraniano. Cioè, non è una minaccia a breve termine, ma per il futuro. L’attuale nemico per Israele non è l’Iran ma Gaza.

L’Iran ha minimizzato l’attacco, per evitare di perdere la faccia e di essere costretto a sferrare l’ennesima ritorsione. Il governo degli ayatollah si è limitato a far sapere che l’esercito iraniano ha abbattuto una serie di droni a Isfahan, ma non ha voluto confermare alcun attacco missilistico.

Israele, nel frattempo, non conferma né smentisce ufficialmente i risultati dei bombardamenti, siano essi con droni, missili, o ibridi.

Un’altra messa in scena per spaventare con una guerra regionale

Nessuno di coloro che sono coinvolti in questa crisi, che ha messo il Medio Oriente sull’orlo di un’esplosione regionale, vuole aggiungere altra benzina sul fuoco in questo momento. Questo attacco risponde più a una messa in scena che a un’operazione militare riuscita, come è avvenuto con la pioggia di 300 missili e droni lanciati dall’Iran contro Israele domenica scorsa.

Lo scorso 1° aprile Israele ha bombardato il consolato iraniano a Damasco e ucciso 13 persone, tra cui sette alti ufficiali militari iraniani. A questa azione Teheran ha risposto, nella notte tra il 13 e il 14 aprile, con il lancio di 300 droni e missili contro Israele. La stragrande maggioranza è stata intercettata prima di toccare il suolo israeliano dall’azione congiunta dei sistemi difensivi e degli aerei di Israele, Stati Uniti e Regno Unito.

Questo massiccio attacco iraniano è stato annunciato in anticipo alla Giordania e all’Iraq, che a loro volta lo hanno comunicato agli Stati Uniti. È stata una dimostrazione di forza senza la capacità di arrecare un danno reale, ma Tel Aviv l’ha presa molto male. Era la prima volta che l’Iran, il suo acerrimo nemico in Medio Oriente, attaccava il suolo israeliano.

Era solo questione di tempo prima che Israele rispondesse. La pressione degli USA, che aveva avvisato Israele che questa volta non lo avrebbero sostenuto in una risposta armata contro l’Iran, hanno fermato l’intenzione del Gabinetto di Netanyahu di lanciare una ritorsione su larga scala. Il prezzo per riuscire a calmare il desiderio di vendetta israeliano contro l’Iran è stato quello di deviare questa aggressività e accettare l’inevitabile presa di Rafah, mettendola a ferro e fuoco, dove quasi 1,5 milioni di palestinesi attendono un epilogo poco promettente.

Il vero obiettivo è Rafah, non Teheran

L’amministrazione del presidente Joe Biden chiede da settimane a Israele di contenersi a Gaza, invasa dall’esercito ebraico dopo l’incursione mortale dei miliziani dell’organizzazione islamista palestinese Hamas del 7 ottobre, che ha provocato 1.200 morti in territorio israeliano.

Dopo aver bombardato tutte le città di Gaza e aver invaso la Striscia, provocando la morte di oltre 34.000 palestinesi, di cui 14.500 bambini, quasi 77.000 feriti e più di 8.000 dispersi, la città di Rafah è l’attuale obiettivo dell’esercito israeliano. Il governo Netanyahu sostiene che Rafah è diventata l’ultimo bastione della resistenza di Hamas, un’organizzazione che ha giurato di cancellare dalla faccia della terra.

Ma Rafah è anche il luogo dove convergono la maggior parte delle centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti dall’avanzata israeliana e dalla distruzione nel resto di Gaza. Situata al confine con l’Egitto, Rafah è diventata un vicolo cieco.

Le Nazioni Unite hanno avvertito che un attacco di terra a Rafah potrebbe trasformarsi in un massacro ancora più grande di quelli commessi dall’esercito israeliano a Gaza City, nel nord della Striscia, o a Khan Yunis, al centro, le più grandi città di Gaza oggi ridotte in macerie e rovine piene di cadaveri ancora non recuperati.

Il riconoscimento della Palestina nel contesto della crisi con l’Iran

Dopo la notizia dell’attacco israeliano a Isfahan, la diplomazia internazionale si è attivata per fermare l’escalation della tensione con l’Iran, con insistenti appelli alla moderazione espressi dalle Nazioni Unite, dal G7 riunito in questi giorni a Capri per analizzare le crisi ucraina e palestinese, dalla Russia, dalla Cina, da un gran numero di paesi dell’Unione Europea, dell’America Latina, del mondo arabo e persino della NATO.

La rappresaglia israeliana è avvenuta solo poche ore dopo che Washington ha dato a Tel Aviv un altro esempio della sua incondizionata serrata di ranghi. Questo giovedì il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato una risoluzione presentata dall’Algeria per accettare la Palestina come Stato a pieno titolo dell’ONU e non come semplice osservatore.

C’è stato il veto, gli Stati Uniti hanno impedito quel riconoscimento e hanno fatto un passo inconciliabile con la difesa del diritto internazionale di cui Washington vuole sventolare la bandiera come modello di democrazia occidentale.

L’Amministrazione Biden si è pienamente allineata con un Governo, quello israeliano, che ha convertito il diritto alla difesa di uno Stato, dopo l’attacco terroristico di Hamas di ottobre, nel genocidio di un intero popolo, quello palestinese.

Israele ora aggiunge la coercizione: o scatena una guerra in Medio Oriente o ha carta bianca a Rafah

Alla commissione di numerosi crimini di guerra, con l’attacco a colonne di rifugiati, ospedali, popolazioni civili, l’assassinio di giornalisti e operatori umanitari, o l’uso della fame come arma di guerra, Israele ora aggiunge la coercizione, anche nei confronti del suo migliore alleato gli Stati Uniti: o scatenano una guerra in Medio Oriente o hanno carta bianca a Rafah.

Israele esce più forte da questa crisi

Per ora, è Israele ad uscire più forte da questa crisi con l’Iran, poiché è riuscito ad allineare ancora più fortemente gli Stati Uniti dalla sua parte, come dimostrato dal veto sulla proposta di risoluzione sul riconoscimento dello Stato palestinese.

È evidente che Israele non permetterà mai l’esistenza di uno stato palestinese vicino e lo impedirà con l’aiuto dei suoi amici all’ONU o direttamente con la forza, come sta accadendo ora, sia a Gaza, con la sua distruzione diretta, sia in Cisgiordania con il furto di terra palestinese da parte di coloni ebrei illegali appoggiati dai fucili dell’esercito israeliano.

L’aggressione iraniana (o meglio, la non aggressione, perché a differenza delle azioni israeliane, questa ondata di droni e missili non ha causato morti in Israele) ha permesso a Israele un bagno di folla e di sostegno internazionale, puntando tutte le dita contro il barbaro regime di Teheran e dimenticando le stragi che si stanno commettendo a Gaza e quelle che potrebbero ancora essere commesse a Rafah.

Senza andare oltre, lunedì prossimo i membri dell’Unione Europea sperano di raggiungere un accordo per sanzionare l’Iran e la sua produzione missilistica, nonché il trasferimento di droni che Teheran potrebbe effettuare verso altri paesi.

L’apparente clemenza di Israele con il suo attacco chirurgico all’Iran dà ossigeno a Netanyahu

Ora, l’apparente clemenza di Israele con il suo attacco chirurgico all’Iran dà ossigeno a Netanyahu e alla sua politica di delinquenza in Medio Oriente, mentre manipola l’Occidente.

In un’intervista con il sito di analisi internazionale Politico, Fadi Quran, membro della rete di studi palestinesi Al-Shabaka, ha indicato che Netanyahu potrebbe aver puntato su una guerra regionale (con l’Iran) semplicemente in modo che “i leader occidentali fossero messi alle strette e lascino che Israele continui ad usare la fame come tattica a Gaza, per poi attaccare Rafah e portare la regione sull’orlo del baratro.”

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Il ruolo di droni, della cyberwarfare (e delle altre tecnologie emergenti) nei conflitti contemporanei

Negli scorsi giorni un gruppo di hacktivisti ucraini chiamato Cyber Resistance ha affermato su Telegram di aver violato i sistemi informatici di un produttore russo di droni, Albatross, sottraendo 100 gigabyte di dati, e di stare coordinando una serie di pubblicazioni dettagliate col sito InformNapalm.

Che in un articolo del 15 aprile sostiene di poter confermare come l’azienda di droni agricoli Albatross sarebbe coinvolta nello sviluppo dei droni “suicidi” Shahed, progettati dall’Iran, e impiegati dalla Russia contro l’Ucraina.

A febbraio un misterioso gruppo di hacker chiamati Prana Network aveva diffuso un leak su un’azienda militare iraniana, facendo circolare presunti documenti riservati (non confermati) secondo i quali, dall’inizio della guerra in Ucraina, la Russia avrebbe acquistato almeno 6.000 droni Shahed 136.

E avrebbe ricevuto un ampio aiuto per la creazione di linee di produzione locali per i droni, pagando questi accordi in parte in lingotti d’oro (secondo i documenti, i russi avrebbero pagato quasi 200mila dollari a drone e il prezzo includerebbe il supporto per mettere in piedi una produzione autonoma, per poi far scendere il costo unitario a 48mila).

“Ora la Russia sta cercando di acquistare e produrre migliaia di droni più avanzati”, scrive Hareetz, che ha esaminato i documenti e li considera autentici.

Indiscrezioni sugli sforzi della Russia di dare vita a linee di produzione proprie di questi droni erano già emerse mesi fa, quando il Financial Times scriveva che “Albatross ha costruito la sua nuova fabbrica all’interno della zona economica speciale di Alabuga, in Tatarstan – un sito che gli Stati Uniti hanno dichiarato essere il centro dello sforzo sostenuto da Teheran per sviluppare la capacità della Russia di produrre droni”. E a dicembre gli Usa l’avevano sanzionata proprio per questo, inserendola nella propria Entity List.

Ora veniamo a inizio aprile, quando questa zona è stata colpita da forze ucraine. I media russi hanno riferito che due droni avrebbero “colpito il complesso di dormitori della zona economica speciale russa di Alabuga, situata a più di 1.200 km dalla città nord-orientale ucraina di Kharkiv, vicino al confine con la Russia”, scrive Reuters, confermando a sua volta le immagini a disposizione.

“L’esperto militare ucraino Oleh Zhdanov – riferisce al riguardo Radio Free Europe (media finanziato dal Congresso Usa e dichiarato “organizzazione non desiderata” dalla Russia) – ha affermato che l’Ucraina stava probabilmente prendendo di mira un nuovo impianto di produzione di droni presso il sito di Alabuga, prevedendo che tali attacchi in profondità all’interno della Russia potrebbero diventare più comuni, date le capacità dei droni ora prodotti da Kiev”.

Se ora torniamo all’inizio di questa storia, il già citato sito InformNapalm scrive che “il 2 aprile 2024, le Forze di Difesa dell’Ucraina hanno colpito con droni kamikaze il territorio della cosiddetta zona economica speciale Alabuga“.

L’obiettivo dell’attacco – prosegue l’articolo – era la fabbrica di Yelabuz, dove sono assemblati gli “Shahed 136” iraniani, sotto il marchio russo “Geran-2”, utilizzati per attaccare l’Ucraina.

Fermiamoci qua. Tutta questa recente vicenda mostra il modo in cui si intrecciano nella guerra in Ucraina diverse dimensioni: la guerra cinetica tradizionale, il massiccio e diversificato uso di droni da entrambe le parti, la riconversione militare di industrie e tecnologie, gli attacchi informatici, i leak e la propaganda.

Un intreccio in cui ogni elemento tecnologico non è mai risolutivo di per sé, ma può dare dei vantaggi tattici o temporali, se calato nelle giuste circostanze. Occorre dunque ridimensionare l’hype nato qualche anno fa da alcune narrazioni attorno alla guerra ibrida (che a sua volta ha sopravvalutato la dimensione della guerra (dis)informativa), e a farlo è anche un report recente del Geneva Centre for Security Policy, che analizza proprio il ruolo delle tecnologie emergenti nel conflitto ucraino.

“Le innovazioni tecnologiche, unite alla mancanza di conflitti interstatali su larga scala, all’aumento della competizione globale attraverso altri mezzi e all’attenzione globale per l’antiterrorismo e la controinsurrezione, hanno portato a una grande attenzione per le forme di guerra “ibride”. Queste analisi rispecchiano un mondo che si aspettava che la guerra nel XXI secolo diventasse piccola, periferica e ibrida, oltre che remota, precisa, efficiente e meno letale”.

Tutto ciò ha portato a predizioni sbagliate, scrivono gli autori. Nella realtà non solo gli elementi tradizionali della guerra (munizioni, artiglieria, logistica, personale) restano centrali, ma ogni elemento tecnologico si lega al resto in contesti specifici e se diventa un vantaggio competitivo ciò avviene in virtù di come si inserisce nel resto. È la gestione di questa complessità a fare la differenza.

Sicuramente “la guerra in Ucraina dimostra che i droni – con vari livelli di sofisticazione, autonomia e tipi di funzioni – sono diventati un elemento essenziale della guerra moderna”, scandisce il report.

E l’Ucraina ha potuto trarre vantaggio dall’impiego di droni soprattutto all’inizio, mentre più recentemente anche la Russia ha iniziato a farne ampio uso.

“Le prime fasi della guerra sono state caratterizzate dalla mancanza di un uso diffuso degli UAV (Unmanned Aerial Vehicle, velivoli senza pilota, ndr) da parte russa. Alcuni esperti sostengono infatti che il mancato utilizzo dei droni da parte della Russia per l’intelligence, la sorveglianza e la ricognizione abbia contribuito ai primi insuccessi dell’invasione, in particolare per la scarsa consapevolezza situazionale derivante dall’assenza di droni”.

Inoltre, i droni sono serviti agli ucraini come efficace strumento di propaganda: i video dei successi degli attacchi alle truppe e ai carri armati russi sono circolati sui social media e hanno galvanizzato il supporto.

Oggi, scrive il report, si stima che la ricognizione con i droni fornisca alle forze ucraine l’86% di tutti gli obiettivi identificati.

Ma la lezione più interessante che arriva dai droni riguarda come il Paese li ha acquisiti e sviluppati. L’Ucraina è stata in grado di sfruttare con successo l’ecosistema globale delle “big tech”, il suo settore tecnologico commerciale civile, le start-up nazionali, le ONG e persino i singoli civili per la sua “guerra dei droni“, riducendo il ciclo tra prototipazione, sperimentazione, test, produzione e messa in campo.

“Mentre prima della guerra solo sette aziende producevano droni in Ucraina, ora ce ne sono fino a 200”.

I droni ci portano subito a un altro elemento tecnologico di questa guerra, l’uso di sistemi di intelligenza artificiale. Un settore dove è più difficile valutare utilizzi reali e risultati, e dove l’ombra dell’hype e della propaganda (anche dei fornitori di questi sistemi) si allunga con più decisione, a mio avviso.

Ma, scrive il report, le notizie provenienti sia dalla Russia che dall’Ucraina sembrano indicare che ci stiamo avvicinando a sistemi d’arma quasi autonomi, o sempre più autonomi.

In ogni caso l’Ucraina ha compreso la necessità di attingere ai dati, inclusi quelli raccolti dal vasto numero di dispositivi che catturano immagini, audio e video della guerra, o quelli che arrivano da informazioni open source.

In questa logica (ma di nuovo anche in quella della guerra informativa) le autorità ucraine hanno aperto canali Telegram o app dove i cittadini possono inviare video e foto delle truppe e dei materiali russi.

Secondo un articolo di questi ultimi giorni dell’Economist, aziende ucraine come Molfar offrono sistemi di IA per identificare target da colpire. O sono usati nel controspionaggio per individuare possibili tracce di spie e traditori. Inutile dire che alcuni degli esempi riportati sono piuttosto inquietanti.

Infine, c’è il fronte cyberwarfare. Anche in questo caso la guerra in Ucraina – come ho scritto più volte nella newsletter di Guerre di Rete – ha ridimensionato le aspettative rispetto alle potenzialità cyber. E le ragioni sono molteplici.

Il report le ripercorre, sottolineando anche il ruolo del settore privato nella difesa informatica di Kiev, da Microsoft a Starlink. “Le autorità ucraine sono state in grado di fare affidamento su una ricca rete di attori governativi e del settore privato, sia stranieri che nazionali, per identificare e rispondere rapidamente alle minacce informatiche”.

Ma l’Ucraina è stata anche protagonista dell’offensiva cyber, attraverso la costituzione dell’IT Army, una sorta di armata di volontari reclutati online per partecipare agli attacchi informatici contro la Russia (che avevo raccontato fin dagli esordi).

“Secondo una ricerca del Center for security studies dell’ETH Zurich, l’IT Army ha una struttura e attività altamente coordinate, con un “core team” ospitato dalle autorità ucraine. Sebbene esista un organo centrale di coordinamento, l’IT Army mantiene però una struttura organizzativa decentrata e diffusa”, scrive il report, aggiungendo che l’uso dell’IT Army e di hacker extraterritoriali ha anche contribuito a confondere i confini legali e normativi.

“Ad esempio, se un cittadino ucraino (o un altro cittadino) conduce un cyberattacco che interrompe le comunicazioni o le infrastrutture delle truppe russe, o in qualche modo influisce o riduce – anche solo marginalmente – le capacità di combattimento della Russia, dovrebbe essere considerato un bersaglio legittimo, anche in un Paese straniero?”

Per altro, la citata ricerca ETH (del 2022) diceva anche altre cose interessanti, indicando una zona grigia e di ambiguità consistente nella collaborazione (o nel chiudere gli occhi) di alcune aziende tech occidentali di fronte alla palese violazione dei loro termini di servizio da parte dell’IT Army (ad esempio, usare servizi anti-DDoS per ospitare strumenti di attacchi DDoS e via dicendo).

In conclusione, e tornando al report iniziale e recente del Geneva Centre for Security Policy, gli autori sottolineano che per quanto riguarda le operazioni informatiche offensive, poiché tra l’altro richiedono tempi lunghi di preparazione, queste possono avere più efficacia nelle “fasi prebelliche”, per raccogliere informazioni e analizzare i sistemi del nemico al fine di identificare le vulnerabilità e sfruttarle successivamente.

Mentre nel corso di un conflitto sono soprattutto strumenti di disturbo a bassa intensità e di sovversione.

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Cile - La resistenza non si ferma con le sentenze

Nessuno che conosca un po’ il Cile attuale e abbia seguito in qualche modo la storia della resistenza del popolo-nazione Mapuche poteva nutrire dubbi sul fatto che Hector Llaitùl, uno dei più noti portavoce della Coordinadora Arauco Malleco sarebbe stato condannato nel giudizio che lo vede accusato, pur senza prove, di “usurpazione violenta, furto di legname e attentato contro l’autorità”.

La condanna avviene in base a quanto previsto dalla legge sulla Sicurezza dello Stato, in regime di militarizzazione del territorio del Wallmapu e di eccezione costituzionale fortemente voluta dal presente governo che sfacciatamente si proclama “transculturale”.

La CAM è la più antica, consistente e radicata delle organizzazioni di resistenza del popolo Mapuche. Ritiene la liberazione del popolo nazione Mapuche possibile solo a seguito del recupero delle terre usurpate dallo Stato cileno e l’espulsione delle imprese forestali che materialmente le occupano.

Non meraviglia che questo Governo cileno, fedele al dettato neoliberista, non intenda tradire le aspettative e i privilegi concessi, anche dai precedenti Governi, alle imprese forestali nazionali e multinazionali e quindi creda di poter risolvere la questione con la repressione fisica e giudiziaria, collettiva e individuale, della popolazione mapuche.

La lotta di liberazione nazionale Mapuche però non si fermerà per una sentenza di tribunale. Non si è fermata per secoli, malgrado le stragi, spoliazioni e feroce repressione cui quel popolo è stato sottoposto.

Inoltre, è assolutamente evidente la similitudine tra la Resistenza nel Wallmapu del popolo Mapuche contro il colonialismo dello Stato cileno e la Resistenza del Popolo Palestinese che continua imperterrita e non si ferma, malgrado il genocidio in corso, contro il colonialismo israeliano d’insediamento che dal 1948 (e anche prima in verità, ma questa è un’altra storia…) opprime, reprime e massacra gli abitanti della Palestina.

Le Resistenze non si processano e non si fermano con le sentenze.

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Popolo Mapuche. Nome di battaglia: Héctor Llaitul

«Questo luogo era la zona più ricca di biodiversità al mondo. Oggi è la seconda regione più desertica del Cile. Il modello di monocoltura forestale difeso da questo Governo ha lasciato solo terreni acidi e inutili. Ma il popolo nazione Mapuche ha un rapporto equilibrato con la terra e non si fermerà», ha affermato Héctor Llaitul, prigioniero politico e portavoce della Coordinadora Arauco Malleco, prima di ricevere il verdetto di condanna del Tribunale Penale Orale di Temuco, regione dell’Araucanía, questo 22 aprile 2024.

E la sua parola, attraverso la quale transitano le antiche generazioni del suo popolo mille volte punito e risorto, ha anche chiarito che «ci dicono sempre che dobbiamo partecipare mediante una ‘via politica’, ai meccanismi offerti dalle istituzioni. Ma per noi la realtà è la stessa: comunità prive di vita, impoverite, che reclamano per riprendersi il proprio territorio. Ci costringono a esistere in antagonismo: la terra per i potenti o la terra per i Mapuche.

Parlate pure delle prove di questo processo, ma non venite a dirci che lo Stato cileno ha risolto i nostri diritti fondamentali (…) visto che nella sua natura più profonda è uno Stato colonialista, razzista, discriminatorio. E non venite nemmeno a dirci che l’industria forestale che ci lascia senza fonti d’acqua è un’alternativa di sviluppo per il popolo nazione Mapuche».

Héctor Llaitul, prima di essere un combattente di spicco per il suo popolo, è stato anche un combattente contro la dittatura civile e militare di Pinochet. Ecco perché nella sua vita si incontrano molte battaglie, piazze e tempo.

«La storia del popolo Mapuche è una storia di resistenza fin dall’arrivo degli spagnoli», ha ricordato Llaitul, e il suo volto si staglia nella geometria di una carcerazione anticipata che hanno i tribunali quando fanno piombare le loro leggi sopra gli oppressi.

«Oggi c’è resistenza perché è su di noi la cultura della morte, della militarizzazione, dell’ingiustizia ripetuta. Il fatto che io sia condannato non metterà fine al diritto profondo delle rivendicazioni dei Mapuche. Questa è una verità che duole al sistema coloniale, al mondo imprenditoriale, ma, al contrario, non duole al cileno cosciente, perché la nostra lotta va ben oltre: ha a che fare con la resistenza e la sopravvivenza dei territori, con la ricerca di un mondo migliore per tutti, per i mapuche e per i cileni», ha detto Llaitul.

Le accuse rivolte dalla Procura e degli avvocati al portavoce di un popolo che persegue l’autonomia e l’indipendenza, rientrano nella Legge sulla Sicurezza dello Stato in quanto presumono un suo coinvolgimento in appelli pubblici rivolti alle comunità mapuche affinché utilizzino la violenza armata e attacchino le infrastrutture delle imprese forestali .

Da parte loro, gli avvocati difensori di Llaitul, Victoria Bórquez e Josefa Ainardi, hanno sottolineato possibili parzialità nel caso, cosa che, come previsto, è stata negata sia dal procuratore Leiva che dai rappresentanti del Ministero degli Interni e dell’impresa Bosques Cautín,.

Llaitul è in detenzione preventiva da due anni. Uno dei suoi difensori ha sottolineato le preoccupazioni espresse dal Consiglio delle Nazioni Unite per l’eccessivo grado di militarizzazione della zona mediante lo stato di eccezione costituzionale, che implica una discriminazione contro il popolo Mapuche.

La Procura, dopo aver ottenuto un verdetto di condanna, ha chiesto una sentenza per 25 anni di reclusione, pena che dovrà ancora essere pronunciata dal tribunale il prossimo 7 maggio, in via virtuale.

Tuttavia, lo Stato capitalista, autoritario, conservatore, razzista ed escludente del Cile, attraverso la sua estensione giudiziaria, uno degli apparati repressivi strategici dell’ordine costituito, ha avviato un processo contro il membro della comunità mapuche Héctor Llaitul senza alcuna prova oltre alle dichiarazioni del portavoce indigeno.

Cioè, ciascuna delle accuse che il Pubblico Ministero ha rivolto a Llaitul è priva di prove decisive. Illegittimità aggravata dal ricorso ai cosiddetti ‘testimoni protetti’, cosa che non consente alcuna difesa. La Procura ne ha chiamati cinque, ma solo due si sono presentati, e uno ha addirittura dichiarato per iscritto, testo letto dallo stesso procuratore. Ciò rende viziato l’intero processo e ingiusta la condanna.

Allo stesso modo, le accuse contro Llaitul sarebbero state compilate da un’unità speciale di polizia, con poteri mai determinati e la cui origine, poteri e costituzione non sono mai stati dettagliati. Lo Stato, infatti, ha utilizzato un software in uso all’intelligence di polizia e politica, chiamato “sistema di avvistamento”, che può essere manipolato georeferenziatamente e il cui scopo specifico è stato quello di perseguitare e impostare prove false contro determinati membri del popolo mapuche.

Per quanto riguarda il ruolo dei media di massa e aziendali, i titoli della stampa del regime dominante (stampa di proprietà delle classi dominanti e, quindi, modellatrice privilegiata del discorso politico pubblico) funzionano come armi atomiche contro la resistenza del popolo-nazione Mapuche e la sua lotta per il recupero dell’autogoverno e del proprio territorio.

Ecco alcuni esempi: “Scoperta connessione mapuche-canadese”, “Potenti gruppi stranieri esercitano influenza sui Mapuche, denuncia l’istituto“, “Identificano un’agitatrice mapuche conosciuta come La Chepa”, “Agricoltori denunciano che il violento leader mapuche ha ricevuto una formazione in Chiapas.”

È così che si riproduce ad alta frequenza la propaganda contro la resistenza mapuche, attraverso le catene del duopolio El Mercurio-La Tercera, tutti i dipartimenti informativi della televisione aperta e igiornali di notizie digitali e multimediali.

Sono questi i mezzi comunicativi e politici utilizzati dalle élite cilene per cercare di imporre i propri interessi di classe nella dimensione della visione del mondo di un’intera società, compresa quella mapuche, e i cui contenuti risuonano inesauribilmente attraverso l’educazione formale, il lavoro e forme predeterminate di vita sociale e utilizzo del tempo libero.

Del resto, il multiforme meccanismo di ampliamento del senso comune dei gruppi sociali privilegiati per diversi secoli ha perforato la resistenza indigena. Quello stesso senso comune il cui obiettivo di fondo è l’espropriazione della terra mapuche e delle sue ricchezze, la subordinazione della popolazione allo sfruttamento produttivo e lo sterminio della dissidenza politica.

Il luogo in cui il capitale coloniale localizza i suoi interessi e le sue enclavi diventano rapidamente riduzioni di comunità preesistenti, prigioni ampliate, caserme per la disciplina sociale, fisica e mentale. Il suprematismo del colonizzatore trasforma l’altro in un oggetto sociale svuotato di sé, dipendente, reso inferiore.

L’occupante cerca la sottomissione totale della società occupata, e nel più breve tempo possibile. Tuttavia, per fare ciò è necessario risparmiare risorse attraverso la sottomissione consenziente e l’interiorizzazione negli oppressi dell’impossibilità di resistere e della legittimità dei fini dello stesso invasore.

In Cile, i mass media sono parte della prolungata guerra antipopolare per la sottomissione dei meticci e degli indigeni.

Ma sebbene il potere mediatico di una minoranza sociale abbia concentrato nella persona di Héctor Llaitul tutti i mali del mondo, quello stesso odio di classe, etnico e colonialista crea il suo rovescio. Moltiplica cioè la solidarietà con la causa mapuche, trasforma in carta le prigioni politiche, sparge le sue ragioni su coloro che erano rimasti indifferenti e nobilita ancora una volta la dignitosa resistenza di un popolo che lotta per ciò che gli spetta: la terra e la libertà.

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